Intervista a un soldato in missione sul vero significato di una guerra fredda e spietata

(Magari striderà con tutto questo contesto poco serio, tra moda e frivolezze, ma è tanto che non ritorno alle origini, alla vera me e questa sono io. Per il numero di dicembre di Controstile ho cercato di scrivere questa intervista nel modo più interessante possibile, spero di esserci riuscita)

GUERRA

La guerra è come una medicina: non deve servirti necessariamente, ma devi averla pronta nel cassetto per ogni evenienza”.

Ho riascoltato questa frase più volte e ho ripensato al periodo in cui, adolescente tra i banchi di scuola, comprendevo le conseguenze dell’odio, della guerra, del terrorismo, della mancanza di libertà. Ricordo che un giorno disegnai su un enorme cartellone la bandiera della pace e l’appesi in camera per ricordare quanto male possano fare alla popolazione umana i tornaconti di potere. E oggi, con qualche anno in più e una piccola dose di cinismo sulle spalle, rifletto sulla guerra e mi chiedo se effettivamente sia davvero realistico un mondo in pace, se noi uomini siamo egoisti per natura. Francamente non lo so e allora mi sono rivolta a chi poteva darmi qualche spiegazione in più.

S. è un soldato, volutamente anonimo per ricordare quanti come lui vivono la realtà delle missioni in Afghanistan; S. potrebbe essere da poco maggiorenne o già padre di famiglia, poco importa; da sempre divide l’opinione pubblica, viene chiamato eroe solo quando giace in una bara, ma finché vivo è spedito, seppure consapevole e da volontario, nel deserto per le missioni di pace. Ma la pace è davvero possibile? S. è unico ma incarna tutti i soldati, con i quali  condivide la stessa espressione consapevole del rischio che si corre quando sulla testa sparano colpi da mortaio. Questa è la guerra vista da chi la vive sulla propria pelle, giusta o no, dura di sicuro e spietata come nient’altro.

Controstile: Niente vacanze di Natale per i soldati?
Soldato: Di solito si parte per contingenti e la missione dura qualche mese; una volta finita si torna a casa, che sia Natale o estate, poco importa. La licenza, di una o due settimane nei periodi stabiliti, viene definita in base alle esigenze di ognuno. E naturalmente tutti cercano di accaparrarsi il periodo migliore.

C: Perché sei diventato soldato?
S: Mi sono diplomato e non avendo trovato ancora la mia strada, ho pensato che potevo provare un anno da militare, per imparare a stare lontano da casa e gestire i miei soldi. L’anno da volontario mi è piaciuto e ho deciso di continuare. E’ stata anche una fortuna, perché in caserma ci sono delle selezioni molto dure per accedere ai quattro anni successivi.

C: L’eccezione che conferma la regola se pensiamo al luogo comune del soldato che fa questo mestiere soprattutto per soldi.
G:
Ogni lavoro lo si sceglie anche per i soldi, io però ho rinunciato ad altre opportunità più sicure e comode. Bisognerebbe evitare di fare di tutta un’erba un fascio. Certo, ci sono molti soldati che si arruolano pur non avendo una buona opinione di questa missione, ma questo accade per qualsiasi mestiere e sarebbe ipocrita affermare il contrario.

C: Poi è arrivato il momento in cui ti hanno proposto di fare la missione in Afghanistan, una scelta volontaria, perché hai accettato?
S:
Si trattava di un’esperienza all’estero sul teatro più impegnativo di tutti quelli gestiti dall’Italia. Il lavoro del militare è sapere esattamente cosa fare e quando, ricevere degli ordini ed eseguirli in un contesto di stress. E io volevo mettermi alla prova, capire se ero un buon militare che sapeva reggere una pressione estenuante.

C: Quindi la tua è stata una sfida?
S:
Sì, anche. Ho accettato per fare esperienza, perché una volta che fai quel tipo di missione puoi dire di aver visto quasi tutto. L’Italia ha mandato soldati in Kosovo e in Bosnia, ma l’Afghanistan è davvero un territorio ostile, sembra quasi di essere tornati ai tempi della seconda guerra mondiale.

C: E non hai mai avuto paura?
S:
La paura vive con te, di certo quando arrivano dei colpi di mortaio non ironizzi, ma prima o poi ti abitui.

C: Io la chiamo incoscienza. Sei mai stato consapevole fino in fondo che un colpo avrebbe potuto anche ucciderti?
S:
Certo, però è più facile pensare “Cazzo, ma su quindici persone, proprio me devono sparare?” Poi puoi rientrare o no nella percentuale, ma se non capita a te tocca ai tuoi amici o a persone che non conosci ma che fanno parte del tuo corpo e alla fine cominci a conviverci. Il primo mese è stata dura, quando bombe e razzi piovevano in base, una, due volte a settimana. Eri lì che dormivi e arriva un mortaio. La terra trema sotto i tuoi piedi e tu corri. Noi non siamo nei villaggi e tecnicamente i talebani prendono una moto, si portano dietro un piccolo mortaio, si avvicinano alle montagne, a uno o due chilometri dal campo base, sparano due bombe e scappano. Come riuscire a prenderli?

C: Perché non andare via dall’Afghanistan? Perché semplicemente non liberarla?
S:
Personalmente credo sia un’idiozia andarsene. Non sai quante volte ho dovuto ascoltare gente ignorante dire “Buttateci una bomba e risolvete il problema” o magari chi vuole che ce ne freghiamo. Assurdo! Pensare poi di lasciarli liberi non sarebbe sensato. Credi che i talebani non farebbero nulla? Per prima cosa ritornerebbero al potere imponendosi con la violenza. Inutile darci degli assassini, non siamo lì a sparare per passatempo! Cerchiamo di difendere e difenderci da chi la guerra la fa fin da bambino. Sicuramente un talebano individualmente è più addestrato di me, ha sparato più colpi e il suo munizionamento è infinito. Con tutti i soldi che arrivano dalla droga e dalla guerra, comprano armi, vecchie e di origine sovietica, però cazzo se funzionano!

C: Un circolo vizioso quindi: si va per la pace, ma mi sembra di capire che la pace non ci sarà mai, vista la speculazione sulla guerra.
S:
La speculazione c’è, è evidente, ma a “mangiarci” su, su questa guerra, non sono solo gli afgani. Potrebbero farlo anche i governi o le associazioni benefiche, io ormai sono molto disilluso.

C: Parliamo dei civili. Avete modo di entrare in contatto con loro? Come vivono nei villaggi?
S:
Nella povertà assoluta. Case in mattoni e fango e gente che muore di fame. Inoltre con i talebani al potere c’è integralismo dappertutto, tanto che è quasi vietato guardare la televisione o usare internet. Poi però capita di vedere gente in moto e quasi tutti sanno usare un cellulare, una contraddizione. Molti villaggi sono sperduti nei deserti e non riesci a capire come fanno a vivere in quel modo, con le loro quattro pecore e poca acqua che tirano a gocce dai pozzi.

C:Avete mai parlato con loro? Cosa pensano di voi?
S:
Un terzo dell’Afghanistan è composto da talebani o da gente che li appoggia. I talebani fanno un grande uso dei media. Magari un mezzo militare passa sul ponte dove hanno preparato dell’esplosivo, il camion esplode e durante lo scoppio muore un bambino. In televisione o al padre del bambino in seguito verrà detto che se quel mezzo militare non ci fosse stato, il figlio sarebbe vivo e poi lo invitano ad arruolarsi e a seguire la loro idea. Il resto della popolazione o ti vuole bene oppure gliene importa poco della tua presenza. Purtroppo c’è molta ignoranza e miseria, mi chiedo quanti di loro siano mai andati a votare.

C: Non ti è mai capitato di parlare con qualcuno che lotta per la liberazione del suo paese?
S:
Sì, ovvio. C’è un movimento di persone contro i talebani che vedono i soldati americani come dei liberatori. I talebani minacciano chi va a votare: basta avere il dito sporco di inchiostro e glielo tagliano e chi non è d’accordo con loro viene ammazzato. Quando noi andiamo nei villaggi, carichi di cibo e acqua e dimostriamo di volerli aiutare loro sono contenti e accettano tutto, ma il vero problema sono le minacce di morte. E’ un regime di terrore, la democrazia per loro è un parolone pericoloso e i talebani marciano sull’ignoranza del popolo.

C: Qual è la difficoltà maggiore da sopportare in Afghanistan?
S:
Non riuscire a distinguere il nemico dall’amico. Cammini per strada e non sai se uno di quegli uomini ti odia o no. Li vedi parlare tranquilli al telefono e non sai se dall’altro capo c’è la moglie o un complice al quale stanno dicendo dove piazzare una bomba al nostro arrivo.

C: Come passano i mesi lontano da casa?
S:
Un giorno per volta facendo le attività più varie: girare per i villaggi a distribuire acqua e cibo, organizzare le visite mediche, distribuire kit per l’agricoltura. Il  vero problema sono le strade e gli attentati. Anche solo per fare un centinaio di chilometri si impiega molto tempo nel deserto. C’è solo una strada asfaltata, la Ring Road, un anello che gira intorno all’Afghanistan, ma i talebani la stanno distruggendo con gli ordigni che ci piazzano sotto. E non parliamo dell’accoglienza: se ti sparano naturalmente non stai lì a prenderti i proiettili, anche perché in quel modo loro guadagnano tempo. Noi spariamo il tempo necessario per andar via e disgraziatamente può anche capitare che un colpo, partito da armi dal grosso calibro, può trapassare i muri dietro ai quali ci sono dei civili. Il fuoco non è mai indirizzato contro di loro, non siamo delle bestie! Alla fine però si rischia di ripetere qualcosa di già detto, oggi ancor di più a qualche mese dagli ultimi attentati e dalle polemiche che sono seguite, ma ho come l’impressione che in tv si dice solo ciò che fa notizia. Un militare che ogni giorno fa il suo dovere non è mai citato perché è normale amministrazione. E’ come il meccanismo di un orologio: ti accorgi che non funziona solo quando si inceppa.

C: L’opinione pubblica è da sempre divisa in due e molti vorrebbero il ritiro delle truppe. C’è poi gente che si domanda cosa facciate lì e se scappa un morto o un ferito risponde che in fondo siete pagati per questo e quindi siete consapevoli che rischiate.
S:
I rischi ci sono e sono anche evidenti, ma le cose non migliorerebbero se i soldati si ritirassero. Ci penserà l’America a mettere più soldati e se permetti, gli italiani hanno fatto un ottimo lavoro. Certo, ci sono stati dei morti, ma non abbiamo gioito per questo e non immagini quanto sia dura lavorare in quella situazione. (A questo punto S. mi mostra al pc un video amatoriale girato da alcuni americani su una strada in Afghanistan. Decine di questi video sono caricati dappertutto sulla rete, non è materiale segreto o esclusivo. Osservo un autocarro che cammina su una strada e ad un certo punto due bombe esplodono fragorosamente facendo sollevare polvere e terra. L’impressione è quella di osservare un film di fantascienza, dove degli enormi mostri si sollevano da terra in lunghezza). Camminiamo per strada con il terrore delle bombe, chi guida il mezzo è responsabile della sua vita e di quella delle altre persone, come si fa? Farei vedere questi video a chi parla in maniera insensata: si può dire tutto, ma provassero a sottoporsi a un tale stress, sotto ogni strada potrebbe esserci la fine della tua vita!

C: Però questa non è una giustificazione. E poi ce ne sono di esaltati poco maturi, ci sono molti giovani inesperti in missione…
S:
Sì, è vero, ma come sempre non bisogna generalizzare.

C: E la pace? Quanto davvero è fattibile la pace?
S:
Per arrivare alla pace bisogna lavorare ancora molto. Bisogna prima mettere ordine. In questi anni abbiamo sminato e costruito strade. Parliamo di grandi ordigni, detonatori molto pericolosi, soprattutto perché i bambini ne sono molto attratti e spesso ci giocano non sapendo di cosa si tratti. L’Afghanistan è il terzo paese più minato del mondo.

C: Alcuni invece parlano di voi come eroi.
S:
Le esagerazioni ci sono sempre. C’è chi ti stima e chi ti addita come assassino. La verità come sempre è nel mezzo. Siamo alla stregua di qualsiasi uomo che a lavoro rischia la vita, l’unica differenza è che in quel momento rappresentiamo l’Italia. Quando dai del cibo ad un bambino, non hai un nome né un cognome, sei un soldato italiano che ha fatto un giuramento di fedeltà.

C:Durante la missione, qual è la cosa che riesce più facile e quella più difficile?
S:
Quella difficile è adattarsi alle condizioni climatiche: caldo durante il giorno ed escursioni termiche la notte. Quella più facile è proprio vivere nel rischio, perché lo sei sempre. Sei in base e ti attaccano, esci e non sai se scoppi su una mina. Vai in un villaggio a dare cibo e non sai se ti accoltellano.

C: Mi stai dicendo quindi che ti abitui…
S:
Sì. I primi mesi è dura, ma dal terzo se senti dei colpi di mortaio quasi fai finta di nulla.

C: Però c’è chi non si abitua mai a questo: la tua famiglia.
S:
Eh, la famiglia! Quando chiami a casa dici che va tutto bene e solo a fine missione confessi loro che arrivano i razzi in base, che sei scampato a cinque, sei attacchi di artiglierie ed è scoppiata una moto poco avanti a te!

C: E in tutto questo c’è posto per Dio?

Il mio soldato, che è un paracadutista, a questo punto mi dice che loro sono devoti a San Michele Arcangelo e che sono i più religiosi tra le forze armate, ma anche i più bestemmiatori. Non so che idea abbia delle morte, ma di sicuro lui l’ha vista più da vicino.

Una cosa è certa: banalità a parte dall’inizio del conflitto 235 mila persone hanno perso la loro casa, circa 8 milioni non mangiano regolarmente, 2 milioni di bambini non vanno a scuola e 15 mila persone muoiono di tubercolosi. Non sono ancora del tutto sicura che la guerra sia la via più giusta, ma mi rendo anche conto che non far nulla significherebbe lasciare questo popolo in pasto a chi lotta per farlo affondare. Nell’ignoranza, nella fame, nella morte.