“O la va o la spacca. Em, ormai ci conosciamo da cinque o sei anni, ma siamo diventati «amici», lo sai, da almeno due anni, che non sono un’eternità ma ormai credo un po’ di conoscerti e di sapere qual è il tuo problema. E sappi che ho passato antropologia per il rotto della cuffia, perciò parlo con cognizione di causa. Se non vuoi sapere la mia teoria, piantala di leggere.
Bene, ecco qua: mi sa che tu hai paura di essere felice, Emma. Forse pensi che il corso naturale delle cose è che la tua vita sia triste, grigia, cupa, e che ti porti a odiare il tuo lavoro e dove abiti, rinunciando al successo o ai soldi o, Dio ce ne scampi, a un ragazzo (piccola digressione: ti avverto che essere bruttini è un atto di autolesionismo, si diventa noiosi). Arrivo a dire che in realtà secondo me ci provi gusto a essere insoddisfatta e a rendere al di sotto delle tue capacità perché così è più facile, vero? Insuccessi e infelicità…E’ più facile così perché puoi scherzarci sopra. Ti scoccia sentirtelo dire? Scommetto di si. Be’, siamo solo all’inizio. […]
Em, non ti capisco: sei giovane, sei praticamente un genio, eppure la tua idea di divertimento è concederti il lusso di un bucato. Be’, io penso che meriti di più. Sei sveglia, spiritosa, gentile (fin troppo, se vuoi sapere la mia opinione) e di gran lunga la persona più intelligente che abbia conosciuto. E (altra sorsata di birra, prendo fiato) sei anche una donna bellissima. E con questo (altra sorsata) voglio dire che sei anche «sexy», anche se scriverlo mi fa una certa impressione.
Be’, non ho nessuna intenzione di farci sopra uno sgorbio perché è politicamente scorretto dire che una donna è «sexy», e per la semplice ragione che è la pura verità. Sei uno schianto, vecchia carampana, e se potessi farti un unico regalo per tutta la vita che ti resta sarebbe un’iniezione di fiducia. Abbi fiducia in te stessa. Un’iniezione di fiducia o una candela profumata, scegli tu.”
(David Nicholls, One Day)
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17.50, orario italiano. Per ricordarmi da dove vengo e che prima o poi vi ritornerò. E’ una domenica oziosa in pigiama, mentre fuori pioggia e sole giocano a rincorrersi. Il giusto tempo per riflettere, anche sul fatto che forse è il caso di tornare a scrivere. Caspita quanto mi manca scrivere! Nel frattempo qui a Londra bisogna sottrarre un’ora e io mi domando quante cose sarò in grado di fare durante questo tempo e se mai riuscirò a scrivere questo post tutto di un fiato. Perchè raccontarsi è per me facile, un po’ meno se ho problemi di spazio e caratteri. A cosa sto pensando di preciso? Che sono contenta di aver finalmente deciso di arrendermi ai cambiamenti, perchè nulla è per sempre eccetto questi. Penso che se qualcuno mi chiedesse di descrivere il mio stato d’animo al momento, gli direi che è come se fossi su un’altalena: tra alti e bassi, di emozioni soprattutto. Rischio vertigini sempre in agguato. Penso che tra nove giorni sono due mesi esatti di follia assoluta, iniziata con la prenotazione di un volo per Londra, mille punti interrogativi e due valigie abbastanza pesanti, continuata con una splendida esperienza vissuta, un altro volo verso casa, una pausa di mare e amici e poi ancora un volo che mi ha riportato nel Regno Unito, questa volta definitivamente o almeno per un po’.

E dopo quasi tre settimane di sbattimenti, incertezze se restare o no, corse in metro, pause mozzafiato guardando la città col naso in su, chilometri macinati alla ricerca di un lavoro e pratiche burocratiche da sbrigare, solo oggi ho deciso di aggiornare la mia città attuale sui social network, non per farmi bella, ma perchè magari porta bene e finalmente ci credo fino in fondo. Perchè avevo immaginato il momento della partenza in mille modi, mille volte, ma mai avrei pensato che sarebbe arrivato, ancora più assurdo poi, immaginare la mia vita qui. Non so quale sia esattamente il meccanismo che fa seguire l’azione ad un pensiero, so solo che per tanto tempo mi sono detta “Ho voglia di trasferirmi, di vedere nuovi posti e fare nuove esperienze”, ma mi è sempre mancato il coraggio e quel pizzico di incoscienza (o forse di presa di coscienza) che trasforma quella che sembra la più grande cavolata nel più bel regalo che potessi farti.

E così, improvvisamente, tutto diventa più facile e chiaro: ti sei buttata, e già questo è metà dell’opera, e tutto quello che senti non è paura del vuoto e di schiantarsi al suolo, ma voglia di toccare l’acqua e godersi il vento tra i capelli durante il tragitto. Ed io avevo bisogno esattamente di questo. Di questo, dell’imparare a fare figuracce e di migliorare il mio inglese. Anche a costo di dover lasciare un lavoro importante nella mia città e di vivere nell’incertezza. Anche a costo di lavorare come cameriera, commessa o cassiera per i primi tempi, in attesa di ambientarsi. Dopo tre settimane ho così realizzato che è non è cosa da tutti e mi sento più coraggiosa e sicura. Perchè i “non ce la faccio” solo in pochi casi corrispondono a verità e la maggior parte delle volte sono solo scuse che inventiamo per tenere a bada noi stessi e per non affrontare le paure. Non so ancora se vincerò mai le mie, ma ci sto provando.

Sto provando a ritrovare la mia individualità, a gestire gli imprevisti e ad improvvisare, a uscire di casa perchè c’è una metropoli dannatamente bella là fuori e con mille posti ancora da scoprire. Sto provando ad accantonare la parte più introversa e impacciata di me e sto cominciando a buttarmi, ad andare per prima e sola, a chiedere, anche se il mio inglese non regge, a fare colloqui, anche improvvisando con la lingua. Non sempre vinco, ma buttarsi nella mischia è sempre meglio di stare fermi.

I giorni trascorsi poi non sono sempre stati belli: i primi tempi in un posto nuovo tutto è splendido, è vero, ma basta un attimo di incertezza e un brutto momento a buttarti giù e farti desiderare di tornare in un posto sicuro e caro. Io di brutti momenti e ansia ne ho avuti un po’ e ancora tanti ne avrò, ma quando mi capitano cerco un posto a caso non ancora visto e mi ci fiondo, osservo tutta quella gente accanto a me che mi sfiora, incrocia e sorpassa e penso che non sono sola e che forse, con tanta grinta e impegno, anch’io potrò farcela.

Era proprio necessario venire a Londra per capirlo e (provare a) cambiare? Per me che faccio le cose sempre e solo quando mi sento pronta, in grado e certa, sì. Per me che dico “Ok lo faccio” e poi mi tiro indietro, poi mi vengono mille dubbi e torno sui miei passi, sì. Per me che sono un’insicura cronica, altruista e poco propensa all’idea che possa essere all’altezza di qualcosa, sì. Perchè ho bisogno di cadere, fare figuracce, accettare l’idea di sbagliare forma, termini e frasi in inglese per i primi tempi, perchè ho bisogno di abbandonare le certezze di una vita e l’idea che tutto sia per sempre, perchè ho bisogno di capire che i “no”, le porte sbattute in faccia, i rifiuti, gli abbandoni non sono sempre negativi, e se sei caparbio, volenteroso e paziente, fidati, prima o poi ce la farai.

E mi viene in mente una frase, “L’unica cosa che separa te dal tuo obiettivo è la stronzata che continui a raccontare a te stesso, per dirti che non puoi farcela“, di Felix Baumgartner, scritta sul suo blog prima di lanciarsi in caduta libera dalla parte superiore della stratosfera a 39045 metri di altezza qualche tempo fa. Ecco, io credo che di cavolate ce ne raccontiamo tante, per paura, vigliaccheria o forse solo perchè è più facile piangerci addosso e io non voglio essere così, voglio dichiarare guerra aperta ai finti muri di paure e “non posso”, “non ce la faccio” “è impossibile”, “inutile provarci”. Voglio sfidarmi e sfidare la sorte. Questo e godermi Londra, ormai così piena di italiani che non puoi sentirti solo. Londra che o la ami o la odi e io la amo dannatamente e non so spiegarmelo, o forse sì. La amo perchè è incasinata e casinista, lunatica e controversa come me e perchè è una bella botta di vita, a volte dosata male e con eccesso, ma sicuramente un’esperienza da vivere almeno per una volta.

Non so cosa sarà di me i prossimi giorni, mesi, anni, so solo che semmai qualcuno in futuro dovesse chiedermi “E’ questa la vita che sognavi?“, vorrei poterlo guardare dritto negli occhi e con un sorriso dirgli che non ho rimpianti e che sono felice. Vorrei potergli dire di aver amato incondizionatamente persone e luoghi e di essermi messa sempre in gioco per migliorarmi. Di aver sognato ad occhi aperti, perchè se li chiudi perdi di vista l’obiettivo e di aver agito. Di essermi persa, ma volutamente, perchè il viaggio è più bello se ci sono luoghi nuovi e nascosti da scoprire. Di essere stata ferma, sì, così ferma da farmi venire crisi di panico, ma dopo un po’ di aver preso una direzione, una qualsiasi, anche se questo significava lasciare lavori, affetti, posti. Di aver trovato me stessa, l’essenza del mio cuore e di aver visto che in fondo non sono poi tanto male. Di essere finalmente felice. Anche se la strada è tanta e in salita.

Intanto mi godo il viaggio e guardo l’orario: sono le 19.20 (orario sempre italiano): missione (quasi) compiuta. Almeno per oggi.